Museum Helveticum 

Giuliano Imperatore e Diodoro (ep. 90 Bidez)

MH Band 78Giuliano Imperatore e Diodoro (ep. 90 Bidez)10.24894/2673-2963.00021 02.06.2021Museum Helveticum Band 78:61-86Tommaso SalvatoriGiuliano Imperatore e Diodoro (ep. 90 Bidez) Tommaso Salvatori, Padova Abstract: This paper deals with the letter the Emperor Julian sent to Photinus, the heretic bishop of Sirmio (ep. 90 in J. Bidez’s edition). It highlights the role Facundus of Hermiane may have played in editing the text of the letter, consequently influencing the reader’s perception. It discusses the relationship between Julian and his correspondent as well as the relationship between Julian and Diodorus of Tarsus, who is hostilely depicted in the letter. Finally it tries to outline the historical background in which Julian’s hatred had developed. Keywords: Antiochene exegesis, Antiochian schism, Emperor Julian, martyr cult, theology of incarnation, Photinus, Diodorus of Tarsus, Facundus of Hermiane. 1 L’incontro di Giuliano e Diodoro L’imperatore Giuliano corrispose con l’eresiarca Fotino (ep. 90 Bidez): nelle porzioni di testo giunte, Giuliano attacca Diodoro di Tarso, padre nobile della tradizione esegetica antiochena ed esponente tra i maggiori della fazione meleziana. L’importanza della lettera consiste in questa informazione: essa mostra che Giuliano conobbe Diodoro, il suo stile di vita, la sua teologia; mostra anche che il Contra Galilaeos deve all’incontro tra i due almeno parte della propria intensità polemica. Il valore storico dell’incontro è difficilmente esagerabile. Ricorderemo almeno che per Alois Grillmeier1 la «dualità di figli» rimproverata da Cirillo a Diodoro, ottenuta allentando l’unità di Cristo per impedire che la communicatio idiomatum minacciasse la divinità di Cristo, è l’espediente con cui Diodoro avrebbe cercato di rispondere alle accuse mossegli da Giuliano. L’impiego di una moderata Trennungschristologie avrebbe potuto «limitare, fino al punto di renderla accettabile anche ad orecchi pagani, la comunicazione degli idiomi, specialmente l’attribuzione al Logos delle debolezze umane». Più di recente Giancarlo Rinaldi2 ha sostenuto che la riprovazione di Diodoro per l’allegoria – testi programmatici di Diodoro, in tal senso, sono la prefazione del suo Commento ai Salmi e il prologo al salmo 118, circolato forse indipendentemente e da taluni identificato col Τίς διαφορὰ θεωρίας καὶ ἀλληγορίας, titolo riportato nel catalogo d’opere della Suda (s. v. Διόδωρος) – Desidero qui ringraziare il professor Luciano Bossina; il suo consiglio e la sua cura hanno molto aiutato il presente lavoro. 1 A. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, I/2 (Brescia 1982) 658–661. 2 G. Rinaldi, Diodoro di Tarso e le ragioni della polemica antiallegorista, in Ricerche Patristiche in onore di Dom Basil Studer, «Augustinianum» 33 (1993) 407–430, (fondamentale qui e sempre nel seguito); anche Id., La Bibbia dei pagani, I (Bologna 1997) 177–237; seguito da F. Thome, Historia contra Mythos (Bonn 2004). * Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 62 Tommaso Salvatori discenda dall’uso intensivo di essa, applicata a miti pagani, nell’opera di Giuliano e del suo prefetto Saturnino Secondo Salustio, l’autore del De diis et mundo. Questo sembra un caso di influenza per azione e reazione. Ancora, Manlio Simonetti ha sostenuto autorevolmente che la distanza tra esegesi alessandrina ed esegesi antiochena debba cogliersi principalmente negli esiti dell’interpretazione, più che nei modi; e in tal caso non si può non notare che l’esegesi diodorea dei Salmi tende a ridurne quanto più possibile l’interpretazione cristologica, mantenuta solo per i salmi 2, 8 e 44, «cioè solo pochi tra quelli più tradizionalmente considerati messianici. In questi casi Diodoro riferisce i testi al Cristo incarnato in modo diretto, mantenendo cioè la lettura ad un solo livello, che è quello della profezia messianica …3 ». Si può ben credere che questa contrazione dell’interpretazione messianica sia dovuta agli attacchi del Contra Galilaeos. Se Giuliano fu allegorista convinto nell’interpretazione dei miti della classicità pagana, nel Contra Galilaeos trascinò invece il testo biblico all’interpretazione letterale e storica, guidato da un malevolo buonsenso4. L’interpretazione giulianea del cristianesimo, storicistica, filoebraica, ha forse condotto Diodoro su posizioni analogamente storiciste, per tentare una difesa, abbandonando posizioni difficili da difendere, là dove l’interpretazione cristologica pareva più forzata e più legata all’arbitrio dell’interprete5. Diodoro si mostra insomma difensore accorto del dogma, ma rinunciando ad estrarre troppe testimonianze dal testo biblico. Non si vuole discutere la validità delle interpretazioni menzionate, che certo risultano svilite per essere state condensate in uno spazio ristretto. Basti averle enunciate per mostrare che l’influenza di Giuliano è stata invocata o può essere invocata nella definizione delle caratteristiche peculiari dell’esegesi e della cristologia antiochene. La possibilità di un così massiccio influsso sembra legata ad una contingenza biografica: Giuliano segnò il corso del pensiero di Diodoro, cioè del primo esegeta «antiocheno», imprimendo all’altezza della fonte una spinta accolta dalle generazioni poi cresciute nell’ἀσκητήριον. L’ep. 90 registra, allora, l’unica traccia di quest’incontro intellettuale. Si è inteso dunque nel sèguito dare un’analisi del testo della lettera e della condizione storica che essa sembra presupporre. Non sarà possibile stabilire, tuttavia, se Giuliano conobbe Diodoro di persona, o se la sua invettiva sia sostanziata unicamente da informazioni di seconda mano. 3 M. Simonetti, Lettera e/o allegoria, Un contributo alla storia dell’esegesi patristica (Roma 1985) 158. Riteneva probabilmente il testo biblico nulla più che un quasi-mito male inventato e incapace (conseguentemente) di nascondere un significato allegorico: cfr. Ch. Riedweg, Mythos mit geheimem Sinn oder reine Blasphemie? Julian über die mosaische Erzählung vom Sündenfall (Contra Galilaeos fr. 17,10–12 Masaracchia), in A. Kolde, A. Lukinovich, A.-L. Rey (a c. di), κορυφαίῳ ἀνδρί. Mélanges offerts à André Hurst (Genève 2005) 367–375. 5 Un’accusa cui Diodoro dovette sottostare nel VI secolo; ne era ad es. accusato da Leonzio di Bisanzio – cfr. O’Keefe, A letter that killeth: Toward a Reassessment of Antiochene Exegesis, or Diodore, Theodore, and Theodoret on the Psalms, «Journal of Early Christian Studies» 8/1 (2000) 83–103: aver dato un’interpretazione troppo ebraica del testo del salterio. 4 Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 Giuliano Imperatore e Diodoro (ep. 90 Bidez) 2 Facondo di Ermiane, redattore Osserviamo che la lettera non ci è giunta per tradizione diretta. Se essa è mai stata parte del corpus epistolare giulianeo, la selezione dei copisti che costituì le raccolte epistolari bizantine6 ci ha impedito di leggerla in greco. Essa è invece conservata nella Defensio trium capitulorum di Facondo di Ermiane7, nel libro IV, al capitolo II 61–65. Il capitolo si occupa del maestro di Teodoro, Diodoro, affermandone risolutamente l’ortodossia e mostrando la stima di cui godette in vita presso altri venerandi esponenti della discussione teologica del suo secolo. Facondo cita frammenti o parti intere di numerosi documenti: una lettera di Atanasio di Alessandria8, una lettera di Pietro II di Alessandria, una lettera di Timoteo d’Alessandria, due lettere di Basilio di Cesarea, parte della Laus Diodori del Crisostomo e di un’altra sua orazione non identificata; poi ancora la lettera dedicatoria del De gemmis di Epifanio, una lettera di vescovi d’Egitto esiliati a Diocesarea sotto Valente, la vita di Diodoro nel De viris di Girolamo, un editto di Teodosio; e infine la lettera di Giuliano a Fotino. Si ritiene che il testo della difesa non sia stato roborato facendo ricorso a raccolte epistolari originali, ma a florilegi di Padri approntati in occasione della controversia nestoriana, piccoli dossier difensivi ad uso dei polemisti9 : Facondo, con ogni probabilità, non attinse l’ep. 90 da un corpus di scritti giulianei. Se ne può dare un veloce esempio: nella lettera di Giuliano Diodoro è descritto come un uomo estremamente consunto e provato nel corpo. Altre fonti confermano questa descrizione – la Laus Diodori del Crisostomo, la Storia di Barḥadbešabba ‘Arbaya (fine VI sec.)10, la Cronaca di Seert11. Possiamo osservare che un’innegabile comu6 Cfr. I. Bidez, F. Cumont, Recherches sur la tradition manuscrite des lettres de l’empereur Julien (Bruxelles 1898) 27 ss. 7 Per Facondo cfr. l’introduzione di S. Petri alla Difesa dei tre Capitoli, vol. 1 (Roma 2007) 5–42; A. Placanica, Facondo Ermianense e la polemica per i tre capitoli, «Maia» 43 (1991) 41–46; L. Fatica, La Defensio di Facondo di Ermiane: saggio antologico-critico, «Aspernas» 39 (1992) 35–55; E. Chrysos, Zur Datierung und Tendenz der Werke des Facundus von Hermiane, «Kleronomia» 1 (1969) 311– 324. 8 Ma a un Diodoro che è verosimilmente Diodoro di Tiro, e non Diodoro di Tarso (Facund. Defens. IV,2,10 ss.). 9 Cfr. Fatica, op. cit. (n. 7) 36; Petri, op. cit. (n. 7) 30–31. 10 Barḥadbešabba ‘Arbaia fu prete e capo dei sorveglianti della scuola della città di Nisibi, e originario di Beit-Arbaïe, secondo il titolo completo dell’opera sua, Storia dei santi padri perseguitati a causa della verità, intitolata semplicemente Storia Ecclesiastica dai moderni. Fiorì ca. il 600 d. C. Può essere con ogni verosimiglianza identificato con il Barḥadbešabba, citato da Ebedjesu, autore di una storia ecclesiastica, d’un opera sugli accusatori di Diodoro, di un commento a Marco; e con il Barḥadbešabba vescovo di Halwan, che nel 605 partecipò al sinodo di Gregorio I, autore di un’opera intitolata Causa della fondazione delle scuole. Cfr. l’introduzione di F. Nau alla Storia Ecclesiastica in PO 9 (1913) 495–502. 11 La Cronaca di Seert o Cronaca Nestoriana è un testo in arabo, tradotto da un originale siriaco perduto. Si tratta di una storia universale composta con buona probabilità nel X secolo. Nella parte che ci è giunta, essa si occupa degli anni 251–243 e 483–650. Cfr. P. Wood, The Chronicle of Seert. Christian historical imagination in late antique Iraq (Oxford 2013); P. Nautin, L’auteur de la «Chroni- Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 63 64 Tommaso Salvatori nanza di dettagli lega l’ep. 90 alla Storia di Barḥadbešabba. L’ep. 90 parla di guance cascanti – malae eius conciderunt, diagnostica una malattia polmonare, e accusa la decrepitezza di Diodoro d’essere una punizione divina. La Storia di Barḥadbešabba contiene un aneddoto simile: Quando un certo pagano vide che le sue guance si toccavano tra loro a causa dell’estrema vecchiezza e dello spossamento ascetico, disse: «È l’opera degli dei, perché egli ha sottratto loro i loro onori.» (PO 23/1932, XVIII, p. 316 = [340]) Barḥadbešabba ha letto la nostra lettera? Se sì, perché ha eliminato il nome di Giuliano12 ? È difficile dire: ma egli usa in difesa di Diodoro molti frammenti di lettere utilizzati anche da Facondo: la lettera di Teodosio, le due lettere di Basilio a Diodoro, l’estratto della Laus Diodori del Crisostomo e la lettera di Atanasio a Diodoro di Tiro. Più che una derivazione diretta, queste corrispondenze sembrano denunciare l’esistenza di una fonte comune: un dossier difensivo diffuso in ambienti prodiodorei. Possiamo essere abbastanza sicuri che Facondo non leggesse un corpus giulianeo, ma si affidasse a una scelta precedente. Nei casi in cui possediamo l’originale integrale greco del testo latino di Facondo possiamo osservare una certa spregiudicatezza nell’uso dei documenti. Facondo – o forse qualcuno prima di lui? – taglia e scompone con molta libertà, e possiamo ragionevolmente domandarci se l’impressione che la lettera di Giuliano a Fotino esercita sul lettore non venga distorta dai tagli. Diamo un esempio di questo procedimento distorcente, applicato ad una lettera di Basilio peraltro assai interessante ai fini del nostro discorso. Nell’ep. 90 Bidez Diodoro è presentato come un conoscitore della filosofia antica, che avrebbe studiato in Atene e ritorcerebbe contro la cultura pagana le armi dialettiche che quella ha approntato: ma sulla abilità retorica di Diodoro le testimonianze degli antichi differiscono. Girolamo, nel De viris, CXIX, ha scritto categoricamente13 : que de Séert»: Iš ōcdenaḥ de Baṣra, «Revue de l’Histoire des Religions» 186/2 (1974) 113–126; L. Sako, Les sources de la chronique de Séert, «Parole de l’Orient» 14 (1987) 155–166. 12 Forse perché Barḥadbešabba, autore cristiano, vuole evitare di menzionare il nome di un imperatore sgradito e odiato come Giuliano (almeno in corrispondenza del suo irriguardoso attacco contro Diodoro). 13 È ben noto che, ancora nel 376 o 377, Girolamo considerava Diodoro un eretico, cfr. Hier. ep. 15: campensens cum Tarsensibus hereticis …; per un inquadramento cfr. Cavallera, Le schisme d’Antioche (Paris 1905) 199 ss.; A. Cain, The letters of Jerome (Oxford 2009) 32–33; un’analisi completa dell’ep. 15 in B. Conring, Hieronymus als Briefschreiber (Tübingen 2000) spec. 204–207. La menzione di Eusebio di Emesa, origeniano moderato, vicino alle posizioni di Eusebio di Cesarea, indica bene quel fronte equilibrato che l’Occidente identificò troppo sbrigativamente con una compagine eretica tout court. Pur considerando Diodoro un illetterato, Girolamo adoperò spesso le sue opere esegetiche: cfr. ad es. il prologo ai Commentarii in Dan., o l’ep. 119. Si vedano A. Penna, Principi e carattere dell’esegesi di S. Gerolamo (Roma 1950); P. Jay, L’exégèse de saint Jérôme (Paris 1985) spec. 156–157; A. Fürst, Hieronymus. Askese und Wissenschaft in der Spätantike (Freiburg 2003) 121–128, 135. È stato possibile affermare che «l’allegoria, quale la concepisce Gerolamo, rassomiglia più alla ‹teoria› antiochena che non all’‹allegoria› alessandrina. La distinzione … segnalata da Diodoro di Tarso … si Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 Giuliano Imperatore e Diodoro (ep. 90 Bidez) Diodorus, Tarsensis episcopus; dum Antiochiae esset presbyter, magis claruit. Exstant eius in Apostolum commentarii, et multa alia, ad Eusebii magis Emiseni characterem pertinentia, cuius cum sensum secutus sit, eloquentiam imitari non potuit, propter ignorantiam saecularium litterarum. Diodoro, vescovo di Tarso, si rese più illustre mentre era prete ad Antiochia. Ci restano i suoi commenti all’apostolo Paolo e molte altre opere che riflettono alquanto il modello di Eusebio di Emesa ma, pur avendone seguito la dottrina, non riuscì ad imitarne lo stile per l’ignoranza delle lettere profane. Basilio di Cesarea, invece, dà nell’ep. 135 una testimonianza differente. La lettera è stata scritta nel 373. Basilio ha appena letto due opere di Diodoro, che questi gli ha inviato. L’una, scritta con stile più semplice e diretto, Basilio ha deciso di tenere con sé, per farla copiare non appena avrà trovato un bravo copista. Ma l’altra è inefficace, perché lo stile è troppo elaborato e complesso: Τὸ δὲ πρότερον τὴν μὲν δύναμιν ἔχον τὴν αὐτὴν ἐν τοῖς πράγμασι, λέξει δὲ πολυτελεστέρᾳ καὶ σχήμασι ποικίλοις καὶ διαλογικαῖς χάρισι κεκομψευμένον, πολλοῦ μοι ἐφάνη καὶ χρόνου πρὸς τὸ ἐπελθεῖν καὶ πόνου διανοίας πρὸς τὸ καὶ συλλέξαι τὰς ἐννοίας καὶ παρακατασχεῖν αὐτὰς τῇ μνήμῃ δεόμενον. La prima opera ha in fondo la stessa forza [della seconda], ma adornato com’è da una dizione sfarzosa, da figure retoriche d’ogni tipo, da finezze della dialettica, mi pare richieda molto tempo per essere letta, e molto sforzo mentale per comprendere i contenuti e mandarli a mente. Basilio ricorre alla filosofia classica per mostrare come Aristotele e Teofrasto, sapendosi stilisticamente inferiori a Platone, preferirono essere lineari e diretti quando esposero le proprie dottrine. È ben vero che Platone si permise di attaccare gli avversari e le loro opinioni come Diodoro ha fatto, ma è pur vero che, se necessario, ha attenuato la caratterizzazione dei personaggi e s’è astenuto dalla polemica: si vedano le Leggi. L’intero rimprovero è rivolto a Diodoro come a qualcuno che ben conosce quegli scritti di filosofia di cui si parla (ἐκεῖνο γὰρ πάντως συνεῖδέ σου ἡ ἀγχίνοια, ὅτι …). Pare a Basilio questa indulgenza per la retorica non degna di uno stile cristiano. Elogia infatti l’altro discorso, quello semplice, con queste parole: … καὶ τὸ τῆς λέξεως ἁπλοῦν καὶ ἀκατάσκευον πρέπον ἔδοξέ μοι εἶναι προθέσει χριστιανοῦ οὐ πρὸς ἐπίδειξιν μᾶλλον ἢ κοινὴν ὠφέλειαν γράφοντος. può rilevare in un gran numero di testi geronimiani» (Penna, op. cit. 147). Il suo giudizio nei Vir. ill. deriva forse da un’angoscia dell’influenza, o dal desiderio di smarcarsi da un collaboratore dottrinalmente sospetto agli occhi dell’occidente. Forse Diodoro fu svantaggiato dal confronto col lodato stile di Eusebio di Emesa, cfr. Hier. Vir. ill. XC. Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 65 66 Tommaso Salvatori … e la semplicità e la naturalezza della dizione s’addicono alle intenzioni di un cristiano, che scrive per giovare a tutti, non per mettere sé in mostra. Curiosamente, sono parole assai simili a quelle dell’ep. 90: Iste enim malo communis utilitatis (Basilio: κοινὴν ὠφέλειαν) Athenas navigans et philosophans inprudenter musicarum participatus est rationum etc. Le due lettere rimproverano a Diodoro di fare troppa retorica (rhetoricis confictionibus, διαλογικαῖς χάρισι; pigmentalibus manganis, σχήμασι ποικίλοις), a detrimento del bene comune: se s’astenesse dall’imitare la dialettica e la retorica pagane tutti ne trarrebbero giovamento. Osserviamo il gioco di scomposizioni e tagli con cui Facondo IV,2,56 (o il precedente pamphlet da cui Facondo dipende) ha trattato l’epistola di Basilio: ha eliminato con precisione ogni riferimento allo scritto complesso e retoricamente elaborato che non ha ricevuto l’approvazione di Basilio, mentre adopera le lodi alla semplicità dell’altro scritto per corroborare la testimonianza di Girolamo. Ne risulta un Diodoro addomesticato, dialetticamente innocuo; soprattutto, mentre la lettera di Basilio, nella sua integrità, s’accorda sostanzialmente alla testimonianza giulianea, la versione ritagliata in Facondo ha valore esattamente opposto. L’opera redazionale di Facondo può dunque modificare la nostra impressione complessiva della lettera. Teniamo da parte l’idea, e osserviamo che un ulteriore filtro ci separa dall’originale: il testo dell’epistola è in latino, ma si ammette comunemente che esso presupponga un originale greco14. Anzitutto l’imperatore definisce i misteri ateniesi paganorum mysteria: è improbabile che l’imperatore potesse indicare con questo aggettivo latino i misteri cui era iniziato. Si tratta più probabilmente della voce cristiana del traduttore che si mescola al greco originale: Claude Fouquet ha sostenuto che l’originale greco contenesse un’espressione più o meno equivalente a «mystères des Hellènes»15. Capita inoltre che il testo latino risulti talvolta più scorrevole se ripensato in greco: così pigmentalibus (manganis) – pigmentalis essendo hapax giulianeo e non attestato altrove – sembra calcato sul greco ποικίλος. Manganum è termine attestato, seppur parcamente, in latino16, ma è con ogni verosimiglianza grecismo su di un originale μάγγανον (μαγγανεία e μαγγανεύω occorrono nel Contra Galilaeos). Altre incongruenze, che potrebbero anche essere guasti della tradizione manoscritta, saranno da imputare al redattore Facondo, specialmente in luoghi caldi come le estremità del testo: così ad es. l’ultima frase giuntaci manca di qualcosa, e già il Bidez proponeva di integrare habens: … usque ad novissimum vitae suae finem asperam et amaram vitam vivens et faciem ‹habens› pallore confectam («vivendo, fino all’estremo termine Delle prove scrittorie di Giuliano in latino non resta nulla. Non possiamo considerare utili per un confronto né i testi normativi contenuti nel Codice Teodosiano e nel Codice Giustinianeo, né certamente l’epistola inviata a Costanzo al momento della rivolta in Amm. XX,8,2. 15 C. Fouquet, L’Hellenisme de l’Empereur Julien, «Bulletin de l’Association Guillaume Budé» 1981/ 2, 192. 16 Ad es. nell’epistola di Nebridio ad Agostino: cfr. Nebr. Aug. epist. I,8. 14 Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 Giuliano Imperatore e Diodoro (ep. 90 Bidez) della sua vita, una vita difficile e amara, ‹avendo› il volto pallido e consumato»), segno probabile del taglio necessario alla conclusione, con buona verosimiglianza affrettata rispetto all’originale. 3 Giuliano e Fotino Quale rapporto legò Giuliano al destinatario della lettera, Fotino? Fotino fu vescovo di Sirmio, in Pannonia17. Già diacono della Chiesa di Ancira ai tempi di Marcello, è menzionato per la prima volta dagli orientali nell’Ekthesis Makrostichos come seguace di Marcello di Ancira, e condannato. Condannato dagli occidentali a Milano nel 345, poi ancora nel 347 a Milano o a Sirmio, non venne però allontanato dalla sua sede episcopale. Solo nel 351 il Concilio di Sirmio, voluto da Costanzo – là presente con la corte – riuscì, dopo averlo condannato nuovamente, a ottenere l’espulsione. In quella circostanza l’agone dialettico tra l’accusatore Basilio di Ancira e Fotino imputato fu stenografato per ordine dell’imperatore. Fotino fu sostituito da Germinio di Cizico. Sappiamo poi dalla brevissima vita contenuta nel De viris di Girolamo (CVII) che Fotino fu espulso dalla Chiesa per opera di Valentiniano: se ne è dedotto che Fotino avesse approfittato dell’editto di tolleranza giulianeo, perché deve essere dunque esistito un momento in cui riprese controllo del seggio episcopale di Sirmio18. La ricostruzione appare sensata: difficile immaginare che Girolamo si confondesse con Costanzo, perché subito dopo la notizia è citata un’opera di Fotino – perduta – intitolata A Valentiniano. Lecito chiedersi se il testo dell’epistola implichi che Giuliano conoscesse di persona Fotino. Aveva avuto modo d’incontrarlo prima di giungere ad Antiochia? Le nostre fonti non ci consentono di saperlo. Certamente esse segnalano a più riprese che Fotino fu assai benvoluto in Sirmio dalla popolazione cattolica della città: Vincenzo di Lérins (Common. 16) riporta che cum magno omnium favore in sacerdotium fuisse adscitus («fu chiamato al sacerdozio con grande approvazione da parte di tutti»). Ilario di Poitiers, ricordando che la sua condanna dopo i due Concili di Milano (345 e 347) non fu seguita dall’espulsione, scrive: Photinus … olim reus pronuntiatus et a communione iam pridem unitatis abscisus, ne tum quidem per factionem populi potuit amoveri («Fotino, da tempo condannato e già da tempo escluso dalla comunione eucaSu Fotino cfr. M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo (Roma 1975) 202–203.219.203–206; Id., Studi sull’Arianesimo (Roma 1965) 135–159; J. Zeiller, Les origines chrétiennes dans les provinces danubiennes de l’empire romain (Roma 1967) 259–267; D. H. Williams, Monarchianism and Photinus of Sirmium as the persistent heretical face of the fourth century, «Harvard Theological Review» 99/2 (2006) 187–206; L. A. Speller, New lights on the Photinians: the evidence of Ambrosiaster, «Journal of Theological Studies» n. s. 34/1 (1983) 99–113; Dizionario patristico e di antichità cristiane, s. v. Fotino di Sirmio; R. P. C. Hanson, The Search for the Christian Doctrine of God (Edinburgh 1988) 235–238. Fonti antiche per la vita: Hier. Vir. ill. CVII; Socr. H. e. II,29–30; Soz. H. e. IV,6; Hil. Coll. antiar. passim; Epiph., Haer. 71. Discussione accurata della cronologia delle condanne di Fotino, per cui possediamo in verità informazioni in parte contraddittorie, in Simonetti, La crisi, op. cit. (n. 17) 202, n. 108. 18 Così ad es. K. Rosen, Julian. Kaiser, Gott und Christenhasser (Stuttgart 2006) 313–314. 17 Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 67 68 Tommaso Salvatori ristica, neppure allora poté essere rimosso, perché il popolo si sollevò»)19. Solo la presenza fisica dell’imperatore Costanzo sembra essere riuscita a dare piena esecuzione alle sentenze rimaste sino ad allora inefficaci, senz’altro impopolari. Quando nel settembre del 361 giunse a Sirmio, marciando speditamente contro Costanzo attraverso la prefettura dell’Illirico, Giuliano ricercava con attenzione il consenso della popolazione cittadina e aveva senz’altro necessità di contrappore se stesso al proprio predecessore20. Ammiano (XXI,10,1) registra impassibile il suo desiderio d’essere accolto in Sirmio come sidus salutare e l’indizione di una gara di cocchi per la plebe, ma il lettore delle Res gestae presente che una sottile insofferenza si nasconde dietro il composto referto, se altrove21 lo storico redarguisce Giuliano per l’eccessivo desiderio di cattivarsi le simpatie popolari. Ammiano non palesa la sua critica qui perché comprende che l’accoglienza festosa in Sirmio ha grande importanza strategica: le altre città dell’Illirico saranno portate a seguire l’esempio della maggiore; l’importanza geopolitica di Sirmio è naturalmente massima. Non riteniamo impossibile che già allora l’imperatore desse esempio della calcolata tolleranza che doveva ispirargli gli editti generali del dicembre di quell’anno. La sua permanenza a Sirmio durò non più di tre giorni, ma una prima promessa di restituire alla città il suo benvoluto vescovo non pare inverosimile. D’altronde il Barnes ha proposto di ripensare la cronologia complessiva dell’editto di tolleranza, collocandone l’emanazione prima della morte di Costanzo22. Una volta che Costanzo fu morto, quale giovamento sarebbe derivato all’imperatore dal voler riportare su importanti seggi episcopali quegli uomini, come Atanasio, che così efficacemente erano stati in grado d’opporsi alla politica religiosa del predecessore? Si dovrà almeno notare che Zonara (Epit. XIII,11) menziona una concessione della libertà di culto ai soldati subito dopo la morte di Elena, che possiamo datare al novembre-dicembre dell’anno 360. La proposta si intona alle ricerche del Brennecke, che ha creduto di scorgere rapporti più che cordiali tra Giuliano e le chiese delle Gallie, e ha fondamentalmente proposto che Giuliano avesse adottato una politica di tolleranza sin dal concilio di Beziers, per catalizzare attorno a sé il consenso dei vescovi di quelle province23. Hil. Coll. antiar. B II,9; cfr. Barnes, Athanasius and Constantius (Cambridge 1993) 231. Per la ricostruzione della resa di Sirmio, cfr. Rosen, op. cit. (n. 18) 215–216. 21 Ad es. cfr. Amm. XXII,14,1: popularitatis amore vilitati studebat venalium rerum (ove l’attitudine di Ammiano sarà anche intento apologetico in favore della curia d’Antiochia). 22 In Barnes, Athanasius and Constantius, op. cit. 152 ss.: ad es. p. 154: «The policy [dell’editto di tolleranza generale] made perfect sense before November 361, for the exiled bishops, both eastern and western, were enemies of his enemy Constantius». 23 Cfr. H. C. Brennecke, Hilarius von Poitiers und die Bischofsopposition gegen Konstantius II (Berlino-New York 1984) 235; Id., Studien zur Geschichte der Homöer (Tübingen 1988) 87 ss.; da avvicinare a G. W. Bowersock, Julian the Apostate (Cambridge 1978) 46–54; e cfr. anche l’impostazione di F. Fatti, Giuliano a Cesarea. La politica ecclesiastica del principe apostata (Roma 2009); Rosen, op. cit. (n. 18) 205 ss. 19 20 Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 Giuliano Imperatore e Diodoro (ep. 90 Bidez) Dal Contra Galilaeos, frg. 6424, sappiamo che Giuliano conobbe senza dubbio la dottrina di Fotino25. L’eresiarca è là oggetto di confutazione26. Bisogna segnalare che il Giuliano del Contra Galilaeos non ha avuto per le minoranze cristiane il medesimo riguardo che storicamente dimostrò loro: ad esempio nel frg. 62 leggiamo: ἄλλον [scil. θεὸν] δὲ [scil. Mωϋσῆς] οὐκ ὑπείληφε δεύτερον οὔτε ὅμοιον οὔτε ἀνόμοιον («[Mosè] non ha concepito un secondo altro [dio], né simile né dissimile»). Questo è un affondo contro Aezio e gli anomei – verso cui pure Giuliano dimostrò un’incontestabile simpatia personale. A torto dunque si vorrebbe osservare un’evoluzione dei rapporti tra Giuliano e Fotino accostando la lettera al frammento, supponendo che l’imperatore intendesse dapprima approfittare dello scismatico per dividere e travagliare dottrinalmente la cristianità e poi, avendolo trovato restio ad assecondare siffatti progetti, lo inserisse nel numero degli avversari religiosi. La lettera non mostra una disponibilità intellettuale e filosofica senza riserve nei confronti del destinatario27. Il quidem che apre il testo giuntoci era già stato inteso dal Bidez come restrittivo: «Toi du moins, Photin, tu sauves les apparences …», anche se un uso semplicemente asseverativo è certamente possibile. Fotino è detto proximus salvari: è cioè giudicato vicino ad una giusta opinione in materia di religione, ma con qualche riserva; sembra sostenere posizioni verosimili, ma non necessariamente è nel vero. Il frg. 64 del Contra Galilaeos può servire ad illuminare questa interpretazione. Giuliano è alle prese col prologo di Giovanni, l’evangelista che considera il principale responsabile dell’identificazione di Gesù Cristo col Verbo di Dio. La linea polemica dell’imperatore, a giudicare dai frammenti superstiti, e specialmente dai frgg. 79 e 80, è chiara: Giuliano rifiuta di prendere in con- I frammenti del Contra Galilaeos sono citati secondo l’edizione di E. Masaracchia, Giuliano Imperatore. Contra Galilaeos (Roma 1990); per la replica Contro Giuliano di Cirillo donde sono tratti cfr. ora Ch. Riedweg, W. Kinzig, Kyrill von Alexandrien, Gegen Julian, I–II (Berlin-Boston 2016–2017). 25 Sulla dottrina di Fotino, cfr. Simonetti, Studi, op. cit. (n. 17) 135–159. Fonti antiche sono Epiph., haer. 71, Socr. H. e. II,29; Soz. H. e. IV,6; Vincent. Ler., Common. 11; Hil. Syn. 38 ss., Trin. X.20.50.61; Ath. Syn. 26–27; Lucif. Non parc. in PL 13 col. 972; ps. Ath. Ar. IV,20 (ma manca la menzione del nome); Vigil. Thaps. c. Arian., I passim; Candid. epist. 1; Mar. Merc. Contrad. XII,19; Thdt. Haer. II,11; si veda poi per l’Ambrosiaster Speller, op. cit. (n. 17). Si aggiungano ovviamente l’Ekthesis Makrostichos e i 27 anatematismi che seguono la I formula di Sirmio (351), anche se non è sempre agevole capire quali si riferiscano a Marcello di Ancira e quali a Fotino. 26 Adv. Gal. frg. 64: «ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεὸν καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος.» ὁρᾷς, ὅτι πρὸς τὸν θεὸν εἶναι λέγεται; εἴτε ὁ ἐκ Μαρίας γεννηθεὶς εἴτε ἄλλος τίς ἐστιν ἵν’ ὁμοῦ καὶ πρὸς Φωτεινὸν ἀποκρίνωμαι–, διαφέρει τοῦτο νῦν οὐδέν· ἀφίημι δῆτα τὴν μάχην ὑμῖν. Cfr. da ultimo M.-O. Boulnois, L’incarnation en question dans la polémique antichrétienne de Celse, Porphyre et Julien, «Schweizerische Zeitschrift für Religions- und Kulturgeschichte» 112 (2018) 27–51. 27 Come sembra da alcuni resoconti, ad es. D. Hunt, The Christian Context of Julian’s Against the Galileians, in N. Baker-Brian, S. Tougher (a c. di), Emperor and Author. The writings of Julian the Apostate (Swansea 2012) 251–262. 24 Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 69 70 Tommaso Salvatori siderazione l’ipotesi eterodossa per cui Gesù potrebbe non essere il Verbo28. Ma ecco come si presenta l’argomentazione nel frg. 64: 1. Mosé ha sempre parlato di un Dio solo; 2. Secondo Giovanni, però, sin dal principio il Verbo era presso Dio; 3. Per Fotino, il Verbo non è il figlio di Maria, per altri sì; ma ciò è al momento irrilevante: Giuliano intende rispondere a entrambe le posizioni e lascia ai suoi avversari la discussione su questo conflitto interno al fronte cristiano; 4. Dunque Giovanni, ammettendo l’esistenza del Verbo, contraddice Mosé; 5. Is. 7,14 non afferma affatto che il figlio nato da vergine sia il Figlio di Dio; 6. I cristiani dunque sbagliano a definire Maria «Madre di Dio». Appare evidente che l’argomentazione è divisa in due sezioni: nella prima, 1–4, Giuliano attacca semplicemente la tesi dell’esistenza del Verbo. Questo attacco riguarda anche Fotino: la differenza tra Logos collectum e Logos extensum che Fotino aveva introdotto proprio per giustificare Io. 1,1 – s’intende la concezione per cui il Verbo solo talvolta abita il Figlio, e certamente non è il Figlio durante la creazione e prima di Cristo29 – presuppone comunque un attore teologico in più rispetto al testo mosaico, seppure distinto quanto meno possibile dal Dio Padre. L’errore che può essere rimproverato sia al verisimile Fotino che all’inverisimile Diodoro è la presenza del Logos πρὸς τὸν θεόν, ἐν ἀρχῇ, accanto a Dio sin già in principio, seppur collectum; presenza inconciliabile col rigido monoteismo della tradizione ebraica. Nella seconda parte dell’argomentazione, 5–6, Giuliano si volge invece bruscamente contro una delle due alternative che aveva deciso di non distinguere al punto 3, quella che gli appare più ridicola: Gesù, il figlio di Maria, è il Verbo incarnato. Questa seconda porzione dell’argomentazione non è più rivolta a Fotino. D’altronde, a chi o a cosa si riferisce il sintagma quem credidisti deum, all’inizio dell’ep. 90? Non a Cristo30, ci pare, ma al Verbo. Se il sintagma fosse riferito a Cristo, la frase sarebbe in contraddizione col pensiero di Fotino, perché egli non dubitò affatto che Cristo, il Figlio, come uomo e prima dell’inhabitatio divina, fosse stato nell’utero di Maria. Evidentemente il sintagma è riferito al Logos identificato strettamente con Dio. È allora probabile che nella porzione di lettera che precedeva l’inizio della citazione di Facondo Giuliano discutesse del Verbo: ma a proposito del Verbo l’imperatore avrà insomma avuto qualcosa da rimproverare (seppur con cortesia) al suo eretico corrispondente. La stessa scelta di definire il Verbo come un dio «presunto» (quem credidisti deum), attraverso una perifrasi non im- Cfr. Ch. Riedweg, Aspects de la polémique philosophique contre les chrétiens dans les quatres primiers siècles (Conférences de l’année 2014–15) «Annuaire de l’École Pratique des Hautes Études, Sciences religieuses» 123 (2016) 151–158, spec. 155. 29 Speller, op. cit. (n. 17) 111. 30 Come ancora è possibile nella traduzione del Bidez: «celui que tu prends pour un dieu». 28 Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 Giuliano Imperatore e Diodoro (ep. 90 Bidez) mediatamente intelligibile se l’oggetto in questione non fosse stato in precedenza oggetto di discussione, indica quale sia la riserva di Giuliano. L’ep. 90 mostrava forse una sequenza logica non diversa da quella del frg. 64: l’errore di Diodoro è commentato dopo una discussione dell’errore comune a Diodoro e Fotino. Il primo periodo (giuntoci) dell’ep. 90 complessivamente significa: «Credi che esista il Verbo: ma almeno non sei tanto folle da identificarlo integralmente col Cristo!». Facondo potrebbe aver occultato il dissenso col gioco di tagli che usa normalmente: ha avvicinato l’imperatore all’eresiarca, perché apparissero entrambi nemici dell’ortodossia di Diodoro. La realtà storica, al netto delle semplificazioni posteriori, dovette essere un poco diversa. Così come Facondo consegna il testo, esso sembra contrapporre vivamente la (almeno parziale) ragionevolezza di Fotino all’irrazionalità di Diodoro, che viene insultato variamente. Però, innegabilmente, alcune espressioni – Nazaraei magus, degenerum et imperitorum eius theologorum piscatorum errorem, sophista religionis agrestis («mago del Nazareno; l’errore dei suoi pescatori teologi, ignoranti e degeneri; il sofista di una religione incolta») – sarebbero risultate assai aggressive anche nei confronti di Fotino: egli è stato giudicato eretico, ma è pur sempre cristiano: verosimilmente venera gli apostoli, e senz’altro lo stesso Cristo, al di là dello statuto onto-teologico che crede di dovergli riconoscere31. Non saremmo stupiti di scoprire che l’epistola fu parte di un carteggio di polemica, seppure scevro di astio o malevolenza nei confronti dell’avversario: lo scopo della lettera non può essere stato semplicemente quello a suo tempo suggerito dal Bidez: «Julien lui [scil. a Fotino] écrit pour lui donner raison contre son détracteur Diodore de Tarse32 ». 4 Giuliano e Diodoro. Un incontro senza testimonianze Sommariamente sistemati i rapporti tra Giuliano e Fotino, è utile discutere dei rapporti tra Giuliano e Diodoro33. Conviene notare anzitutto che se prescindiamo da questa stessa lettera la tradizione storiografica è completamente silenziosa. Né Simonetti, Studi, op. cit. (n. 17) 150 ss.; in part. 152 n. 91. Bidez, Oeuvres, I/2 10. 33 Per la biografia di Diodoro, fonti antiche principali: Thdt. H. e. II,24; IV,25; V,4; Socr. H. e. VI,3; Soz. H. e., VIII,2; Bas. ep. 99.244. Sulla tradizione siriaca v. supra. Complessivamente cfr. C. Schäublin, s. v. Diodor von Tarsus in TRE VIII 763 ss.; G. Rinaldi, op. cit. (n. 2); E. Venables s. v. Diodorus 3, in A Dictionary of Christian Biography and Literature, a c. di H. Wace e W. C. Piercy (Boston, 1911); l’introduzione a J.-M. Olivier, Diodori Tarsensis Commentarii in Psalmos, I (Turnhout 1980); V. Ermoni, Diodore de Tarse et son rôle doctrinal, «Le Muséon» N. S. 2 (1901) 422–444; P. Godet, s. v. Diodore de Tarse nel Dictionnaire de théologie catholique. Per lo stile esegetico di Diodoro cfr. C. Schäublin, Untersuchungen zu Methode und Herkunft der antiochenischen Exegese (Köln-Bonn 1974); M. Simonetti, op. cit. (n. 3) 157–167 e l’intero cap. III,4; Id., Sul significato di alcuni termini tecnici nella letteratura esegetica greca, in AA. VV., La terminologia esegetica nell’antichità. Atti del primo seminario di Antichità Cristiane. Bari, 25 ottobre 1984 (Bari 1987) 25–58; A. Vaccari, La ΘΕΩΡΙΑ nella Scuola esegetica 31 32 Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 71 72 Tommaso Salvatori il Crisostomo della Laus Diodori, né le storie ecclesiastiche di Rufino, Socrate, Sozomeno, Teodoreto, né Filostorgio o il Chronicon Paschale mostrano di avere cognizione di un incontro (o di uno scontro) tra Giuliano e Diodoro. Questo è tanto più notevole in Teodoreto, che è il bacino collettore di tradizioni senz’altro locali. Anzi è singolare che l’attivo Diodoro, le cui gesta antiariane sono elogiate prima, sotto Costanzo, e poi, sotto Valente, appaia stranamente inattivo sotto Giuliano: di lui non è fatta menzione nel libro III. Il Rinaldi afferma che la Storia Ecclesiastica di Teodoreto, a IV,2234, può confermare lo scontro di Diodoro e Giuliano: «la divinità di Gesù era senza dubbio il principale argomento di controversia. Theod. HE 4.22 afferma esplicitamente che durante la permanenza antiochena di Giuliano, Diodoro si ergeva ‹come una grande roccia in mezzo all’oceano› per difendere quella dottrina.» Il passo però si riferisce alla situazione antiochena sotto Valente, e non sotto Giuliano; l’esilio di Melezio che vi è rammentato è di necessità il terzo, non il primo; né Giuliano né la difesa della piena divinità di Cristo sono menzionate. Si può peraltro proporre una piena derivazione dell’immagine del masso tra le onde, in realtà abbastanza topica, dal sermo non repertus del Crisostomo di cui è conservato un breve stralcio in latino proprio in Facondo, IV,2,38: vel scopulus quidam altus et magnus ante alios stans et contrariorum suscipiens fluctus et resolvens, in tranquillitate ceterum corpus Ecclesiae custodivit, repercutiens tempestatem … («come un alto e grande scoglio, fermo davanti agli altri, ricevendo e infrangendo le onde agitate da elementi contrari, difese la tranquillità del resto del corpo della Chiesa, respingendo la tempesta») – cfr. Teodoreto: Ἀλλὰ Φλαβιανὸς καὶ Διόδωρος, καθάπερ τινὲς πρόβολοι, τὰ προσβάλλοντα διέλυον κύματα («Ma Flaviano e Diodoro, come scogli, rompevano le onde in assalto»): detto delle stesse persone, forse a proposito della medesima contingenza storica. L’assoluto silenzio della tradizione storiografica, contemporanea e posteriore – una tradizione che ha registrato, parrebbe, i più piccoli alterchi tra Giuliano e gli ecclesiastici, come lo scambio di bat- di Antiochia, «Biblica» 1 (1920) 3–36; R. Hill, Diodore of Tarsus as Spiritual Director, «Orientalia Christiana Periodica» 71/2 (2005) 413–430; R. Abramowski, Untersuchungen zu Diodor von Tarsus, «Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft» 30 (1931) 234–262; E. Schweizer, Diodor von Tarsus als Exeget, «Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft» 40 (1941) 33–75; M.-J. Rondeau, Le «Commentaire des Psaumes» de Diodore de Tarse et l’exégèse antique du Psaume 109/110, «Revue de l’histoire des religions» 176/1 (1969) 5–33; 176/2 (1969) 153–188; 177/1 (1970) 5–33; J. J. O’Keefe, op. cit. (n. 5); G. Rinaldi, La Bibbia, op. cit. (n. 2) 177–237 e F. Thome, op. cit. (n. 2). Esistono vari cataloghi delle opere di Diodoro. (i) Il catalogo (greco) nella Suda s. v. Διόδωρος, dipendente da Teodoro il Lettore; (ii) il catalogo siriaco di Barḥadbešabba; (iii) il catalogo siriaco di Ebedjesu di Nisibi (1318). Informazioni sparse sono invece in Thdt. Haer. II,11; in Phot. Bibl. 223; in Leont. B. Nest. et Eut. III (PG 86/1 1386 ss.). Ebedjesu attribuisce a Diodoro più di sessanta opere, ma sostiene anche che esse furono bruciate dagli ariani. Per una divisione dei titoli in gruppi tematici cfr. Rinaldi, Diodoro di Tarso, op. cit. (n. 2) 408 n. 4; 425 n. 51. Bisogna osservare che esiste un gruppo di trattati dedicati all’astronomia e all’astrologia. Al di là del Κατὰ ἀστρονόμων καὶ ἀστρολόγων καὶ εἱμαρμένης, di cui possediamo una riduzione nella Biblioteca di Fozio, leggiamo titoli d’opere perdute di ambito astronomico-scientifico, che mostrano conoscenza di Ipparco e Aristotele. 34 Così nella Patrologia, libro IV,22 = SChr 530: IV,25. Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 Giuliano Imperatore e Diodoro (ep. 90 Bidez) tute con Maris di Calcedonia35 ; e che neppure ha tralasciato piccoli ma significativi indizi di vicinanza a Basilio di Cesarea36 – mostra che abbiamo a che fare con un documento singolare, che non può contare su nessun’altra conferma storiografica37. L’ep. 90 ci aiuta, del resto, meno di quanto potrebbe sembrare. Essa vuole implicare che Giuliano conobbe Diodoro di persona, incontrandolo fisicamente? Non è facile dire: è ben vero che la lettera contiene una descrizione assai minuziosa dell’aspetto di Diodoro, ma potrebbe trattarsi di informazioni di seconda mano, riportategli da Libanio, o dallo zio Giuliano, o da altri antiocheni. Giuliano mostra infatti di sapere che iam diu est quod ab ipsis punitur diis, un’informazione che probabilmente non è di prima mano. Se Giuliano incontrò Diodoro in Antiochia, è assai verisimile che lo conobbe là per la prima volta38. Interpretando la decrepitezza di Diodoro come punizione già in atto da tempo, Giuliano mostra di essersi informato sulla storia del suo nemico. È quasi più interessante che l’imperatore scriva acutus apparuit sophista religionis agrestis («si è rivelato il sottile sofista di una religione incolta»): apparuit: forse in qualche circostanza Diodoro ebbe modo di sembrare un troppo astuto dialettico, magari in un dibattito pubblico? Eppure è lo stesso Giuliano a scrivere poi: omnem … miserabiliter imbibens, ut aiunt, … theologorum piscatorum errorem («miseramente imbevendosi tutto, dicono, degli errori di teologi pescatori»): perché ut aiunt? Cos’è che Giuliano apprende solo indirettamente? Il comportamento di Diodoro ad Atene? O conosce per sentito dire la sua speculazione filosofica nel complesso? Se pure Giuliano non aveva ancora incontrato personalmente Diodoro al momento di scrivere a Fotino, o almeno non aveva un’idea sufficientemente approfondita della sua speculazione, non si vorrà negare alla lettera almeno una sorta di valore ermeneutico preterintenzionale. Scrivendo di Diodoro a Fotino, Giuliano coglie una somiglianza tra i due non priva di valore. Ad esempio, è noto che Diodoro, come poi Nestorio, ritiene non opportuno definire θεοτόκος Maria, preferendo Socr. H. e. III,12; Soz. H. e. V,4. Cfr. ad es. F. Fatti, Dai Quaderni di Nicobulo, «Antiquité Tardive» 17 (2009) 251–268. 37 È vero che il Contra Galilaeos (frg. 84) riferisce di una discussione polemica tra Giuliano e un anonimo vescovo cristiano: oggetto del contendere fu l’interpretazione dei sacrifici di Caino e Abele; ed è vero anche che Diodoro scrisse un De animalibus et sacrificiis – che non si fatica a immaginare memore dei grandi sacrifici che Giuliano celebrò in Antiochia e che Ammiano ebbe modo di rimproverare nelle Res gestae – ma non sembra possibile identificare l’anonimo con Diodoro, perché negli anni 362–363 Diodoro non era ancora vescovo, ma presbitero: cfr. Rinaldi, Diodoro di Tarso, op. cit. (n. 2) 412. 38 Non si erano incontrati ad Atene; o almeno, nulla di ciò che sappiamo induce a crederlo. Ci pare da escludersi l’ipotesi che Diodoro studiasse in Atene negli stessi anni di Giuliano, Basilio e Gregorio di Nazianzo, come pure è stato creduto (Venables s. v. Diodorus, cfr. n. 33): Giuliano, l’unica fonte del viaggio ad Atene, è anche l’unica fonte che ci informa del fatto che nel 362 Diodoro era molto anziano – nel 362 Giuliano ha trentuno anni: e non descrive nell’ep. 90 Diodoro come fosse un suo coetaneo! Inoltre Basilio, nella succitata ep., non sembra rivolgersi a un compagno di studi, ma a un conoscente più adulto. 35 36 Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 73 74 Tommaso Salvatori ἀνθρωποτόκος. Si può essere ragionevolmente sicuri di questa posizione perché essa è confermata da una citazione di Euterio di Tiana, fervente nestoriano, nella Lettera ad Alessandro di Ierapoli39. In questa contestazione consiste una ben precisa corrispondenza con la dottrina di Fotino e Paolo di Samosata – già in antico fu chiaro, come mostra Socrate (H. e. VII,32), che discute dei rapporti tra Nestorio e Fotino: lo storico non è propriamente d’accordo ad una derivazione dell’eresia del primo dall’eresia del secondo, ma attesta una posizione diffusa che è assai significativa. Analoghe somiglianze commenta Mario Mercatore, nei Nestorii Blasphemiarum Capitula XII, a XII,19: ed è ben più propenso a costruire una genealogia, ovvero una dipendenza di Nestorio da Fotino. La grande differenza, agli occhi dei moderni, consiste nella distinzione tra il Logos e il Padre, che è sostanzialmente nulla in Fotino e Paolo ma forte e indiscussa nell’antiariano Diodoro. Al di là della grande distanza trinitaria, però, due Trennungschristologien dovevano pur mostrare punti di contatto. Le somiglianze tra Nestorio e Fotino si spiegano attraverso Diodoro? Sappiamo da Teodoreto, dal Barḥadbešabba e dalla Cronaca di Seert che Diodoro compilò un Adversum Photinum, che è perduto, e che forse Giuliano poté leggere40. Polemizzando contro l’eresiarca, fu Diodoro contaminato in parte dal pensiero del suo avversario? L’ipotesi è inverificabile: ma l’incontro tra il pensiero teologico antiocheno e la speculazione fotiniana avvenne innegabilmente, e avvenne dapprima in corrispondenza della polemica di Diodoro contro Fotino. 39 ACO 1/4 in Behr, The case against Diodore and Theodore. Texts and their contexts (Oxford 2011) 216. Ricorderemo ancora soltanto che il Grillmeier ha riconosciuto nella cristologia diodorea lo schema Logos-sarx accanto allo schema Logos-uomo. Per un parere diverso si cfr. però R. A. Greer, The Antiochene Christology of Diodore of Tarsus, in «The Journal of Theological Studies» 17/2 (1966) 327–341. Il Grillmeier attribuisce allo scontro di Diodoro con Apollinare e l’apollinarismo la scoperta dell’anima di Cristo: solo allora Diodoro si sarebbe mosso verso quella posizione Logos-uomo (almeno apparentemente) più adatta alla concezione del Cristo nel nestorianesimo di là da venire. Eppure Apollinare non è l’unico stimolo (ovv. per opposizione) che avrebbe potuto portare Diodoro ad adottare lo schema Logos-uomo. Manlio Simonetti ha addotto prove convincenti per dimostrare che anche Fotino adottò lo schema Logos-uomo, in questo distinguendosi – allo stato delle scarse conoscenze permesse dai frammenti in nostro possesso – dal maestro Marcello di Ancira. La testimonianza di Ilario Trin. X,20.50.61, indica che Fotino «attribuì grande importanza alla presenza in Cristo di un’anima umana, e quindi di un’umanità integrale», spinto dalla preoccupazione soteriologica di una redenzione completa dell’uomo, in entrambe le parti che lo compongono, di fatto anticipando «singolarmente la fondamentale obiezione che di lì a qualche anno sarebbe stata mossa da parte ortodossa contro Apollinare» (Simonetti, Studi, op. cit. (n. 2) 159). Diodoro potrebbe avere ripreso quel modo d’intendere l’essere di Cristo da Fotino stesso. Se lo schema Logos-uomo è metafisicamente adeguato ad una teologia almeno un po’ divisiva, qual è quella che – al netto delle esagerazioni degli avversari – Diodoro sembra avere sostenuto, non pare impossibile che Diodoro abbia cercato molto presto l’attrezzatura metafisica necessaria a giustificare la sua separazione del Logos dalla carne di Cristo, un decennio prima dello scontro con Apollinare. Parere diverso però (ad es.) in A. Segneri, Atanasio. Lettera agli antiocheni (Bologna 2010) 151, che per lo schema Logos-uomo invoca «una consolidata tradizione antiochena, la quale nel suo insieme si espresse secondo una cristologia dell’uomo completo». 40 Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 Giuliano Imperatore e Diodoro (ep. 90 Bidez) 5 Lo sfondo storico dell’ep. 90 La lettera non sembra offrire spunti di datazione. Se essa è stata scritta in Antiochia, come pare, sarà stata composta tra il luglio del 362 e il 5 marzo del 363, e preferibilmente in un momento un po’ distante da questo termine ultimo, perché il Contra Galilaeos non pare affatto compiuto. Riferimenti a fatti occorsi in Antiochia paiono assenti. Lo scisma che travagliava la chiesa di Antiochia – meleziani, eustaziani, ariani in lotta vicendevole – non è né menzionato né alluso nell’epistola41. Però crediamo che le critiche mosse a Diodoro acquistino significato più circostanziato e maggiore pregnanza se intese sullo sfondo di eventi antiocheni e circostanze storiche precise. Nel tentativo di aiutare l’interpretazione della lettera, cercheremo d’ora in avanti di delineare i rapporti tra l’imperatore e la pars meleziana nell’autunno del 362, e specialmente in occasione del celebre incendio del tempio di Apollo a Dafne che seguì la traslazione delle reliquie del martire Babila. Conviene osservare preliminarmente che il rientro di Melezio in Antiochia, a seguito dell’editto di tolleranza giulianeo, non è facile a datarsi: se esso fosse posteriore all’arrivo di Giuliano in città, l’imperatore avrebbe trovato proprio Diodoro alla guida della parte meleziana giungendo in Antiochia. E quand’anche Melezio fosse tornato in precedenza – più o meno contemporaneamente ad Atanasio – Diodoro rimarrebbe senz’altro un esponente di spicco della fazione omeousiana, e senza dubbio un uomo di grande visibilità in Antiochia42. 5.1 Babila a Dafne Dafne è un sobborgo che si trova a sei chilometri di distanza da Antiochia, a sudovest della città43. Le ricche ville, i giardini e le terme ne fanno un luogo di piacere. Gli autori pagani ne cantano caldamente le lodi44 ; gli autori cristiani pronunciano una condanna moralistica dei piaceri del luogo45. A Dafne era stato edificato un importante tempio, al dio Apollo; lo scultore Bryaxis aveva scolpito la statua del dio46. Nel tempio scorreva l’acqua della fonte Castalia, dotata di facoltà profetiche, Per cui cfr. F. Cavallera, op. cit. (n. 13); M. Simonetti, La crisi, op. cit. (n. 17); T. A. Kopecek, A History of Neo-Arianism (Cambridge 1979); H. C. Brennecke, Studien, op. cit. (n. 23). 42 Su Melezio cfr. T. R. Karmann, Meletius von Antiochen (Frankfurt am Main 2009); J. Zachhuber, The Antiochene Synod of AD 363 and the Beginnings of Neo-Nicenism, «Zeitschrift für Antikes Christentum» 4/1 (2000) 83–101. Sull’esilio cfr. Brennecke, Studien, op. cit. (n. 23) 66–81, oltre a Simonetti, La crisi, op. cit. (n. 17) passim. 43 Cfr. A. J. Festugière, Antioche Païenne et Chrétienne (Paris 1959) 52; A. U. De Giorgi, Ancient Antioch (Cambridge 2016) 150–162. 44 Jul. ep. 98; Lib. Or. XI (vedi anche l’Or. LX; e cfr. Festugière op. cit. (n. 43) 53 ss.); Lib. ep. 419; Amm. XIX,12,19. 45 Chrys. Pan. Iuln. 4; Pan. Bab. 1, 67–69. 46 Sul tempio: Philostr. VA I16; Amm. XXII,13,1; Jo. Mal. Chron. X,234; Lib. Or. II,96; Soz. H. e. V,19,9. Sulla statua: Amm. XII,13,1; Zonar. XIII,12,35; Jul. Misop. 34; ep. 98; Lib. Or. LX,12; Cedr. 322.7 41 Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 75 76 Tommaso Salvatori che Adriano aveva voluto tacesse47. Il sobborgo doveva essere meta di pellegrinaggi pagani – anche il famoso Apollonio di Tiana vi aveva fatto visita48 – ma i cristiani antiocheni dovevano cercare senz’altro di conquistarne il possesso spirituale. Da Libanio, (Or. X,30), ad esempio, apprendiamo di uno scontro a Dafne tra pagani e cristiani in occasione dei giochi olimpici antiocheni. In quella circostanza il sobborgo, per essere più puro, avrebbe dovuto accogliere solo uomini, mentre le donne avrebbero dovuto allontanarsi. Un empio uomo cristiano s’oppose e alcune donne rimasero a Dafne o vi ebbero accesso, con gran scorno degli organizzatori dei giochi49. La tradizione storiografica ha legato al nome del Cesare Gallo, fratellastro di Giuliano, la traslazione delle reliquie del martire Babila dal cimitero di Antiochia al sobborgo di Dafne; e si trattò di colonizzazione spirituale del piccolo sobborgo, come alcune fonti cristiane (Soz. H. e. V,19,12–14; Chrys. Pan. Bab. 1, 67) riconoscono espressamente e fieramente. Il Cesare Gallo, pio cristiano, volle rimediare alla corruzione morale del sobborgo. La traslazione fu atto assai importante; è la prima traslazione di reliquie di cui abbiamo notizia50. Non sarà superfluo indagarne le interpretazioni nella tradizione51. Innegabilmente gli scrittori del V secolo descrivono il culto di Babila in termini strettamente ortodossi: lo rivendicano, cioè, alla parte neo-nicena. Secondo il Brennecke questa rappresentazione neo-nicena nasconde la verità: il culto ha origini ariane, e solo l’interesse che Melezio mostrerà per l’attribuzione a Bry‹a›xis; cfr. complessivamente G. Downey, A History of Antioch in Syria from Seleucus to the Arab Conquest (Princeton 1961) 82 ss. 47 B. Cabouret, L’oracle de la source Castalie à Daphne près d’Antioche, in AA. VV. Eukrata. Mélanges offerts à Claude Vatin (Aix-en-Provence, 1994) 95–104. Cfr. Amm. XXII,12,8; Soz. H. e. V,19; Nonn. Abb. Hist. Juln. II,21 (= PG 36, col. 1045); per una rappresentazione nelle arti figurative cfr. J. Lassus, La mosaïque de Yakto, in Antioch on-the-Orontes, I: The excavations of 1932 (Princeton N. J. 1934) 107 ss. 48 J. Chelini, H. Branthomme, Histoire des pèlerinages non chrétiens: entre magique et sacré: le chemin des dieux (Paris 1987) 148. Cfr. Philostr., VA I,16. 49 L’Or. X fu composta nel 384, ma l’evento cui allude non è datato. L’empio uomo menzionato da Libanio, la cui morte dolorosa fu causata dalla consunzione del corpo, non può dunque essere Diodoro di Tarso (v. infra), che morì ca. il 392. Cfr. E. Soler, Le sacré et la salut à Antioche au IV siècle apr. J.C.: pratiques festives et comportements religieux dans le processus de christianisation de la cité (Beyrouth 2006) 38: il Soler ritiene che l’interesse mostrato dai cristiani nell’opporsi al divieto pagano fosse legato al culto di Babila, e alla possibilità d’avere accesso alla tomba durante i giochi. 50 Sugli spostamenti di Babila, cfr. W. Mayer, P. Allen, The Churches of Syrian Antioch (300–638 CE) (Leuven 2012) 135–140, sulla traslazione poi 182–184.191–194.200–203; anche Downey, op. cit. (n. 46) 364. Si veda altresì J. R. Stenger, Healing Place or Abode of the Demons? Libanius’s and Chrysostom’s Rewriting of the Apollo Sanctuary at Daphne, in S. P. Bergjan, S. Elm (a c. di), Antioch II, The Many Faces of Antioch: Intellectual Exchange and Religious Diversity, CE 350–450 (Tübingen, 2018) 193–220. 51 Per quanto segue cfr. Brennecke, Studien, op. cit. (n. 23) 136 ss.; Downey op. cit. (n. 46) 380– 397; Id., The Shrines of st. Babylas at Antioch and Daphne 45–48 in AA. VV., Antioch on-the-Orontes, II: The excavations 1933–1936 (Princeton N. J. 1938); W. Ensslin, Kaiser Julians Gesetzgebungswerk und Reichsverwaltung, in «Klio» 18 (1923) 182–184. Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 Giuliano Imperatore e Diodoro (ep. 90 Bidez) per S. Babila ha innescato una appropriazione storiografica52, cancellando l’origine omea. La traslazione delle reliquie avvenne mentre Leonzio era vescovo e Gallo fu il semplice esecutore di un’iniziativa di Leonzio53. Questa interpretazione, quando anche fosse accettata, non depone necessariamente a favore della paternità ariana del culto. La bella analisi di Wendy Mayer e Pauline Allen54 mostra come, già sotto il Cesare Gallo, il culto delle tombe dei martiri costituisse una forma di resistenza alla dominazione omea; i martyria sono in qualche misura al di fuori del controllo di Leonzio e centri di resistenza al suo potere. Si legga Teodoreto (H. e. II 24, 9): Οὗτοι πρῶτοι [scil. Diodoro di Tarso e Flaviano, futuro vescovo di Antiochia], διχῆ διελόντες τοὺς τῶν ψαλλόντων χορούς, ἐκ διαδοχῆς ᾄδειν τὴν Δαυϊδικὴν ἐδίδαξαν μελῳδίαν. Καὶ τοῦτο ἐν Ἀντιοχεία πρῶτον ἀρξάμενον, πάντοσε διέδραμε, καὶ κατέλαβε τῆς οἰκουμένης τὰ τέρματα. Οὗτοι τῶν θείων τοὺς ἐραστὰς εἰς τοὺς τῶν μαρτύρων σηκοὺς συναγείροντες, πάννυχοι διετέλουν σὺν ἐκείνοις τὸν Θεὸν ἀνυμνοῦντες. Ταῦτα δὲ ὁρῶν ὁ Λεόντιος, κωλύειν μὲν οὐκ ἐνόμιζεν ἀσφαλές· ἑώρα γὰρ τὸ πλῆθος εὖ μάλα περὶ τοὺς ἀρίστους ἐκείνους διακείμενον ἄνδρας· ἐπιεικείᾳ δὲ τοὺς λόγους χρωννύς, ἐν ταῖς ἐκκλησίαις ταύτην γίνεσθαι παρ’αὐτῶν τὴν λειτουργίαν ἠξίου. Questi [Flaviano e Diodoro] per primi, dividendo in due metà i cori di cantori, insegnarono il canto alternato della melodia di Davide. E questo modo di cantare, nato dapprima in Antiochia, si diffuse dappertutto e raggiunse i confini del mondo. Raccoglievano attorno alle tombe dei martiri i credenti più devoti, e assieme a loro trascorrevano la notte cantando inni a Dio. Leonzio si accorse di ciò, ma ritenne poco prudente osteggiare la pratica: vedeva infatti che il popolo era assai ben disposto nei confronti di quegli ottimi uomini. Mascherò allora di bontà i suoi discorsi, e domandò che celebrassero quella liturgia nelle chiese. Allontanare Babila dal koimeterion appena fuori città ad un sobborgo distante sei chilometri da essa significava de facto spegnere un luogo di culto cittadino rivaleggiante con le chiese urbane più importanti. Se dunque la traslazione voluta da Gallo fu ispirata dalla parte ariana, tutto il contrario dovrà dirsi del culto in sé, di ispirazione presumibilmente anti-ariana. Ed è lecito pensare che Babila a Dafne non fosse abbandonato da quei fedeli che s’erano stretti attorno alla sua tomba e che ancora alla fine del decennio Flaviano e Diodoro continuassero le loro veglie, assieme ai fedeli più devoti, forse anche a Dafne, vicino al santo che avevano venerato nel koimeterion. Quando Giuliano arrivò in Antiochia qualche anno dopo, oramai apertosi lo scisma meleziano, le chiese della città si trovavano tutte in mano agli ariani di Eu- 52 53 54 Cfr. E. Soler, op. cit. (n. 49) 199–203, 207–208. Cfr. Brennecke, Studien, op. cit. (n. 23) 137. Cfr. W. Mayer, P. Allen, op. cit. (n. 50) 200–203. Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 77 78 Tommaso Salvatori zoio55, ad eccezione della Chiesa Vecchia (Παλαιά), che venne occupata dai meleziani56, e di un’altra piccola chiesa urbana che Euzoio, per rispetto, accordò a Paolino57. E tuttavia la chiesa Παλαιά non fu sempre in mano ai meleziani, ed è quasi sicuro che in taluni momenti essi non potessero riunirsi in alcun edificio58. La supremazia geografica di Euzoio all’interno delle porte della città, ci pare, potrebbe aver spinto i ferventi sostenitori di Flaviano e Diodoro a spostarsi nel sobborgo, e a gioire quando Babila fu recuperato al koimeterion. Ci si può chiedere se non esista un qualche debole indizio di ciò. I resoconti della seconda traslazione delle reliquie sono vari. Le fonti che descrivono lo spostamento (Rufino H. e. I,36; Teodoreto H. e. III,10,2–3; Socrate H. e. III,18; Sozomeno H. e. V,19; Crisostomo, Pan. Bab. 1, 90; Filostorgio H. e. VII,8a) dipendono in parte le une dalle altre: con ogni probabilità, Socrate ha riassunto Rufino – entrambi ignorano l’incendio del tempio – mentre Sozomeno, che pure sembra dipendere da Rufino, forse attraverso Socrate59, conosce molti dettagli aggiuntivi sull’affaire Babila. Filostorgio è invece unico testimone di una tradizione miracolistica in cui la tomba si muove da sola. Rufino, Teodoreto e Sozomeno, ad ogni modo, convergono nel rappresentare un grande concorso di popolo, che cantando i salmi accompagna il corpo del martire60. Merita una qualche attenzione il canto dei salmi con cui la folla festante insulta l’imperatore. È alla pars meleziana e alle sue guide, Flaviano e Diodoro, che la storiografia posteriore ha attribuito alcune innovazioni in fatto di salmodia. Si è visto nel passo succitato61 di Teodore55 Cfr. F. Fatti, op. cit. (n. 23) 159–162; Cavallera, op. cit. (n. 13) 90; Thdt. H. e. III,12,1; Gr. Naz. Or. IV,88,23.24; Soz. H. e. V,10,10; cfr. anche A. Grabar, Martyrium (London, 1972) 214–233. 56 Fonti: Thdt. H. e. III,4,2.6 (i Meleziani nella Chiesa Vecchia); il Tomus ad Antiochenos; il Chron. Pasch. 548 Dindorf (362 d. C.). 57 Socr. H. e. III,9,4; Soz. H. e. V,3,13. 58 Depongono in tal senso le due testimonianze di Socrate H. e. III,9,4: Μελέτιος δὲ ἔξω τῶν πυλῶν τῆς πόλεως τὰς συναγωγὰς ἐποιεῖτο, e Sozomeno H. e. V,13,3: ἐπανελθὼν Μελέτιος ἐκ τῆς ὑπερορίας, κεχωρισμένους εὑρὼν τὰ αὐτοῦ φρονοῦντας, ἰδίᾳ σὺν τούτοις ἔξω τῆς πόλεως ἐκκλησίαζεν. La cronologia dell’occupazione della Παλαιά è d’altronde, nelle fonti, abbastanza problematica: cfr. Cavallera, op. cit. (n. 13) 100–1; W. Eltester, Die Kirchen Antiochias im IV Jahrhundert, «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft» 36/2 (1937) 274–275. 59 Cfr. G. Sabbah, A.-J. Festugière, B. Grillet, Sozomène, Histoire Ecclésiastique, livres V–VI, SChr 495 (Paris 2005) 202. 60 Recentemente Emmanuel Soler – cfr. E. Soler, op. cit. (n. 49) 59 – ha messo in discussione la verità stessa di questa manifestazione, che certamente solleva qualche problema sul suo statuto istituzionale. Soler, ricordando la divisione della chiesa antiochena in questo 362 d. C., crede che la grande partecipazione sia una costruzione posteriore. Il Brennecke (Studien, op. cit. (n. 23) 137–138) fedele alla impostazione sua – solo il vescovo può presiedere ad una traslazione di così grande importanza – crede che Euzoio abbia guidato la manifestazione, come a suo tempo Leonzio l’altra in senso inverso; poi la sua presenza venne censurata dalle fonti neo-nicene e da Filostorgio. Ma, come abbiamo già ricordato, questa è la prima traslazione di reliquie di cui si abbia menzione, o al più la seconda (cfr. W. Mayer, P. Allen, op. cit. (n. 50) 193 n. 95): non è obbligatorio credere che il vescovo Euzoio dovesse necessariamente guidare il corteo, perché l’atto di traslazione era ancora atto straordinario, non normato da precedenti consuetudini. 61 Thdt. H. e. II,24,9. Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 Giuliano Imperatore e Diodoro (ep. 90 Bidez) to che Diodoro e Flaviano introdussero il canto antifonico, di contro al sistema responsoriale precedentemente in uso. Sappiamo ancora da Teodoreto che durante l’impero di Valente, Flaviano e Diodoro, espulsi dalle chiese, riunivano i fedeli meleziani fuori porta per dedicarsi al canto (H. e. IV,25). Il Commento ai Salmi attribuito a Diodoro è il corollario esegetico di queste iniziative. La rappresentazione d’un Giuliano perseguitato dalla salmodia cristiana non ci pare dunque incolore, e sembra legata a un interesse della pars meleziana, come dimostra l’insistenza delle fonti neo-nicene su episodi che coinvolgono Giuliano e il canto dei salmi62. Non a caso, nel suo resoconto della traslazione delle reliquie, Filostorgio non contribuisce a questa rappresentazione, ma sostituisce il trasporto con un avvenimento portentoso. Se una delle due parti sta ritoccando la verità, si può credere che sia piuttosto Filostorgio, che ha introdotto un prodigio63. La presunta origine ariana del culto pare però confermata dai provvedimenti presi da Giuliano all’indomani dell’incendio che distrusse il tempio. Da Ammiano (XXII,13,2) sappiamo che l’imperatore ordinò la chiusura della Chiesa Grande di Antiochia; chiesa che è in mano a Euzoio. Secondo Teodoreto (H. e. III,12) lo zio di Giuliano, il comes Orientis Giuliano64, entrò nella Chiesa Grande e schiaffeggiò Euzoio. La testimonianza, a volte, è bastata a concludere che l’ira di Giuliano si sia riversata unicamente sugli ariani di Euzoio65 e i meleziani siano stati risparmiati dal saccheggio. È vero che nessuno dei panegirici composti in onore di Melezio – Si veda ad es. in Teodoreto (H. e. III,19) l’episodio dello schiaffeggiamento di Publia, una diaconessa che gestisce una specie di educandato per giovani vergini. Esse si esercitano nel canto dei salmi; Publia è propriamente una maestra di coro. Proprio come la folla nel corso della traslazione, Publia e le sue allieve cantano quei salmi che dichiarano l’impotenza degli idoli (Ps. 113 e 67), alzando la voce mentre Giuliano passa per strada; tra i due eventi ha voluto vedere un nesso causale Rosen, op. cit. (n. 18) 295. Il legame di Publia con la pars meleziana sembra probabile: essa è la madre di un Giovanni che Teodoreto mostra di stimare molto e che è stato identificato con Giovanni di Apamea, cfr. Bouffartigue, Hansen, Parmentier, Théodoret de Cyr, Histoire ecclesiastique, II, Livres 3–5 (Paris 2009) 449. Era stato proposto anche il Crisostomo: cfr. Brennecke, Studien, op. cit. (n. 23) 145; M. L. De Tillemont, Memoires pour servir a l’histoire ecclesiastique des six premiers siecles, vol. VII (Parigi 1706) 739. 63 Si può cogliere forse qualche debole consonanza tra il racconto di Teodoreto e alcune preoccupazioni coeve dell’imperatore Giuliano. Anzitutto un certo interesse per i cori religiosi: cfr. Jul. ep. 109 a Ecdicio, prefetto d’Egitto: Giuliano raccomanda la costituzione di un coro di cento giovani, che saranno mantenuti «a spese dello Stato». Questi interventi oscillano tra le suggestioni neopitagoriche e giamblichee e una presunta emulazione della chiesa cristiana, su cui Giuliano avrebbe modellato la propria idea della comunità religiosa pagana: «une église païenne», secondo la fortunata e discutibile definizione del Koch: cfr. W. Koch, Comment l’empereur Julien tâcha de fonder une église païenne, «Revue belge de philologie et d’histoire» 6/1–2 (1927) 123–146; 7/1 (1928) 49–82; 7/2 (1928) 511–550. Interessante, ma pericolosa per la sua provenienza dalla penna di un terribile polemista, è la testimonianza del Nazianzeno; questi elenca in Or. IV,111 le novità che Giuliano, imitando i cristiani, volle introdurre nel culto e nell’organizzazione sacerdotale dei pagani. Nell’elenco, troviamo: εὐχῶν τε τύπον ἐν μέρει. Se si tratta del canto alternato che Diodoro e Flaviano istituirono ad Antiochia, avremmo un esempio di candida emulazione: tale l’opinione del Bidez, Oeuvres, I/2 120–121; accolta ad es. in M. C. De Vita, Giuliano Imperatore filosofo neoplatonico (Milano 2011) 241. 64 E dunque omonimo del nipote, come il nonno materno; cfr. PLRE vol. I s. v. Iulianus 12. 65 Cfr. Fatti, op. cit. 161 (n. 23). 62 Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 79 80 Tommaso Salvatori né quello di Gregorio di Nissa né quello del Crisostomo – racconta di una sua persecuzione sotto Giuliano, ma nel bilancio complessivo della vita di Melezio, naturalmente segmentata secondo gli esili, l’imperatore Giuliano rimane associato necessariamente all’editto di tolleranza e al rientro dal primo esilio. D’altronde, osservando meglio le fonti, non si ha l’impressione di una grande persecuzione66 : il bilancio complessivo consiste di un solo possibile martire in Sozomeno, peraltro non espressamente legato all’affare del tempio a Dafne, più alcuni arresti di cristiani rilasciati e un saccheggio generico. L’episodio si sarà risolto in un grande spavento, se si smussano i toni enfatici ma assai generici della Passio Artemi e si considera la grande fuga del clero antiocheno in Sozomeno non molto più che un espediente per illuminare l’assolo del martire Teodoro. Inoltre la politica di Euzoio non pare affatto votata al contrasto, ma pare piuttosto conciliante: risentendo, com’è naturale, dell’ingombrante presenza in città dell’imperatore e del suo esercito. Chi ponga poi mente alle vicende dell’anomeo Aezio si accorgerà che questo cristiano, grande amico dell’imperatore Giuliano, condannato da Costanzo II e tradito dagli omei nel 360, venne riabilitato da un piccolo concilio antiocheno guidato da Euzoio stesso67, proprio in previsione dell’arrivo in città dell’imperatore. Euzoio accolse dunque Giuliano con un intento conciliativo – nonostante fosse stato vicinissimo a Costanzo. L’organizzazione di una processione spettacolare e irridente com’è quella testimoniata dalle fonti non sembra affatto addirsi alla cauta circospezione di questo vescovo ariano. Il provvedimento contro la Chiesa Grande avrà avuto valore simbolico: l’interdetto del maggiore luogo di culto cristiano dopo la distruzione di un grande tempio pagano; all’imperatore Euzoio sarà parso, nella circostanza, il rappresentante ufficiale di tutti i cristiani d’Antiochia. 5.2 Giuliano e Diodoro. Il capo d’accusa Proviamo a tornare all’ep. 90. Esistono senz’altro varie motivazioni che indussero Giuliano ad ordinare lo spostamento del corpo di Babila.68 Una, in special modo, Ecco le fonti: a) Crisostomo Pan. Bab. 1 (dà solo informazioni generiche); b) Rufino H. e. I,36– 37 (ignora l’incendio); c) Socrate III,19 (ignora l’incendio; sua fonte è Rufino); d) Sozomeno H. e. V,8 (saccheggio delle chiese di Antiochia, senza menzione di Dafne); H. e. V,19, (traslazione e incendio); e) Filostorgio VII,8a = Pass. Art. 49; f) Teodoreto H. e. III,10–14. 67 Su Aezio: J.-M. Prieur, Aèce selon l’Histoire Ecclésiastique de Philostorge, «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses» 85/4 (2005) 529–552; Id., Eunome selon l’Histoire Ecclésiastique de Philostorge, «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses» 86/2 (2006) 171–182; T. A. Kopecek, op. cit. (n. 41); R. P. Vaggione, Eunomius of Cyzicus and the Nicene Revolution (Oxford 2000) ma soprattutto Fatti, op. cit. (n. 23). Per la dottrina, un tentativo di sintesi è in Simonetti, La crisi, op. cit. (n. 17) 253– 259. Per il concilio a cui qui si fa riferimento, seguiamo Fatti, op. cit. (n. 23) 43 n. 93: sostiene sulla scorta di Brennecke, Studien, op. cit. (n. 23) 111–112 che il concilio antiocheno sia avvenuto dopo l’arrivo di Giuliano in città. 68 Che Giuliano volesse preservare l’integrità del luogo dove aveva insegnato l’ammiratissimo Giamblico, secondo una notizia di Jo. Mal. Chron. I,47, è proposta da respingere; Malalas ha verosimilmente inteso un toponimo omonimo nel nord della Palestina, e Giamblico non insegnò mai nei 66 Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 Giuliano Imperatore e Diodoro (ep. 90 Bidez) può essere interessante. È nota l’avversione di Giuliano per le tombe e i funerali. Considerò i funerali contaminanti, dispensatori di impurità, certamente secondo convinzioni pitagoriche e neoplatoniche69, e ne proibì l’esecuzione e i cortei nelle ore diurne, come risulta ancora dalla lettera esplicativa d’accompagnamento a una legge riportata nei Codici Teodosiano e Giustinianeo, ep. 136b. Quanto alle tombe, Giuliano auspica – nella legge latina dei codici – che esse vengano lasciate riposare nella giusta quiete che spetta alla morte, senza lapidem hinc movere et terram sollicitare et cespitem vellere («rimuovere di là pietre, o smuovere la terra, o strappar l’erba»)70. L’empietà dei cristiani consiste in questa frequentazione disturbatrice, che elicita il disprezzo dell’imperatore. Nel Misopogon Giuliano immagina che gli abitanti di Antiochia gli rivelino d’esser ricorsi τοῖς περὶ τοὺς τάφους καλινδουμένοις γραϊδίοις («alle vecchiette che si aggirano tra le tombe») per sbarazzarsi di lui71 ; e spesso altrove nelle sue opere72 cristiani e tombe sono, com’è ovvio, in stretta relazione. Ma meritano grandissima attenzione i frammenti del Contra Galilaeos (frg. 81 e 82) in cui Giuliano discute le ragioni e le origini di questo comportamento. Egli accusa (frg. 81) i cristiani di aver riempito ogni luogo di tombe e sepolcri, senza che la Bibbia o i Vangeli lo permettessero: anzi Cristo stesso, nel vangelo di Matteo (Mt 23, 27), riconosce e afferma l’impurità delle tombe. Allora perché i cristiani dormono presso di esse? La risposta è (frg. 82), secondo Isaia (Is. 65, 4): ἐν τοῖς μνήμασι καὶ ἐν τοῖς σπηλαίοις κοιμῶνται δι’ ἐνύπνια («dormono nei sepolcri e nelle caverne per sognare»). I cristiani dormono presso i sepolcri per sognare; si tratta di magia; è una pratica d’oniromanzia; i cristiani l’hanno appresa dagli apostoli. Nei frammenti 87 e 88 Giuliano discute inoltre le dipressi di Antiochia; si veda J. Vanderspoel, Iamblichus at Daphne, «Greek, Roman and Byzantine Studies» 29 (1988) 83–86. Per un parere contrario, Soler, op. cit. (n. 49) 34 ss. Forse più significativa poté essere la memoria di Apollonio di Tiana, dopo il Filalete di Ierocle. 69 Ad es. cfr. Iambl. VP XXXV (225): ma Giuliano non sembra aver letto le opere pitagoriche di Giamblico, cfr. J. Bouffartigue, L’Empereur Julien et la culture de son temps (Paris 1992) 331–359. 70 C. Th. IX,17,5; C. Iust. IX,15,19,5. La legge fu promulgata alla vigilia dei Feralia, nel febbraio 363; cfr. Soler op. cit. (n. 49) 55. Si veda il confronto tra le diverse versioni in E. Volterra, Il problema del testo nelle costituzioni imperiali 917 ss., in Id., Scritti giuridici, 6: le fonti (Napoli 1994); d’altronde la conservazione nei codici divenne possibile perché «le idee sottintese di Giuliano scomparirono da lungo nel trabocchetto della storia; le disposizioni apertamente precisate (diversi divieti di danneggiamento ai sepolcri) erano attuali anche nel tempo di Giustiniano»: A. Polaček, L’attività riformatrice di Giuliano, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, III, Da Costantino a Teodosio, con particolare riguardo alla politica legislativa di Giuliano (Perugia 1979) 307–322; assai interessante, in questo stesso volume miscellaneo, C. St. Tomulescu, Julien l’Apostat et le code de Justinien 411–422, ove il Tomulescu confronta C. Th. IX,17,5, giuntaci sotto il nome del solo Giuliano, con C. Th. IX,17,4, datata all’anno 357 e giuntaci sotto i due nomi di Costanzo (Augusto) e Giuliano (Cesare), concludendo che alla pratica cristiana del culto dei martiri è dovuto l’interesse esclusivo per le tombe di questa seconda, contro l’interesse congiunto per tombe e cadaveri della prima. 71 Misop. 10; l’immagine è topica: si cfr. ad es. l’anilis superstitio di Amm. XXI,16,18 (che è già ciceroniana, ad es. De nat. deor. II 70: superstitiones aniles; III 92: superstitiose atque aniliter) e lo stesso Giuliano, ep. 89b, γραιδϊοις ψυχροῖς (295d). 72 Jul. Mis. 28.33; Gal. frgg. 81 e 82. Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 81 82 Tommaso Salvatori pratiche di predizione del futuro in uso presso gli Ebrei. L’arte mantica di Abramo, che era Caldeo (frg. 86), è conforme all’uso greco (frg. 88)73. Dunque nel culto delle tombe presso il tempio di Dafne, e segnatamente del sepolcro di Babila, Giuliano doveva riconoscere un’attività oniromantica, il cui intento non poteva che essere la predizione del futuro; una pratica di divinazione originariamente pagana, poi ebraica, infine cristiana, per successive distorsioni e abbrutimenti – secondo quella tesi portante del Contra Galilaeos che vuole il cristianesimo una perversione dell’ebraismo, e l’ebraismo una singolare varietà, tollerabile ancora, della religione greco-romano-egizia. Il tempio di Apollo e la tomba di Babila dovevano apparirgli, rispettivamente, una nobile e una ignobile fonte di accesso al futuro, l’una posta accanto all’altra. Non sfugga il grandissimo peso politico della pratica divinatoria nello scontro tra cristiani e pagani: Giuliano stesso, nell’orazione A Helios re, riconosce espressamente nel dio Apollo il garante della grecità del mondo latino e della legittimità dell’Impero, a mezzo degli oracoli: cui dedicò dunque vivissima attenzione. Racconta ad es. Libanio (Or. XVIII,118) che, ricevuta la notizia della morte di Costanzo, e dapprima temendo fosse falsa, ricorse a un suo piccolo libro d’oracoli per assicurarsene: e avendone trovato conferma, fu contento74. D’altronde, nell’interessarsi alla fonte oracolare di Dafne, Giuliano s’inseriva appieno nella vasta querelle sulla veridicità degli oracoli classici che aveva lungamente impegnato polemisti cristiani e pagani, da Oenomao di Gadara a Celso a Porfirio, da Origene a Eusebio75. Nel Contra Galilaeos è menzionato il μοχθηρὸς Εὐσέβιος: Giuliano sta considerando un passo della Praeparatio Evangelica, XI 5, 5. Chi tenga conto che nei libri V–VI della Praeparatio Eusebio discute diffusamente della Filosofia rivelata dagli oracoli di Porfirio vede bene che Giuliano doveva venir punto nel vivo da un attacco così documentato, tanto da farne e converso – s’è Un breve ma interessante confronto tra le apparizioni di Mosè in Celso, Porfirio e Giuliano è in J. Bouffartigue, op. cit. (n. 69) 115–117; e segnatamente su Mosè, antico mago, si veda Celso: Orig. Cels. IV,33. 74 Per questa contrapposizione quasi biunivoca tra templi e tombe si consulterà fruttuosamente Libanio: Or. XVII,7 (ancora Babila e Apollo); Or. XVIII,282; Or. LXII,10 (ricorre qui la formula τοὺς περὶ τοὺς τάφους). L’interesse di Giuliano per la predizione del futuro permane vivissimo nell’immaginario cristiano posteriore: nella Pass. Art. 25 il martire rinfaccia a Giuliano il tramonto degli oracoli, citando l’ammissione di sconfitta dello stesso Apollo di Delfi. Egli cita le parole d’un responso delfico che il medico Oribasio avrebbe riferito a Giuliano: cfr. G. Fatouros, ΕΙΠΑΤΕ ΤΩΙ ΒΑΣΙΛΗΙ, «Hermes» 124/3 (1996) 367–374. Ma può giovare ricordare che anche Costanzo II aveva prestato massima attenzione alla predizione del futuro, ossessionato dall’idea che si consultassero oracoli o si praticasse la magia per rovesciarlo (si vedrà Amm. XIX,12, special. 14–15); e che negli anni Settanta del IV secolo l’imperatore Valente colpì duramente le eterie pagane di Antiochia accusandole di praticare la mantica e la divinazione: col fine sovversivo di scoprire il nome di un futuro imperatore da sollevare al suo posto. Anche Libanio fu coinvolto in quei processi. Cfr. P. Chuvin, Cronique des derniers paiens (Brescia 2012) 371–372; e, per il regno di Costanzo II, 44–47; vedi inoltre P. Athanassaidi, Philosophers and Oracles: Shifts of Authority in Late Paganism, «Byzantion» 62 (1982) 45–62. Nella divinazione quest’età d’inquietudine ha visto il germe della sedizione politica. 75 Cfr. Bouffartigue, op. cit. (n. 69) 301–306: pare che Giuliano non avesse letto La filosofia rivelata dagli oracoli di Porfirio. Doveva comunque conoscere quest’opera attraverso Eusebio. 73 Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 Giuliano Imperatore e Diodoro (ep. 90 Bidez) ipotizzato – il modello per la propria confutazione, altrettanto documentata da numerose fonti bibliche76. Volle inoltre reagire nella pratica77. L’incubatio cristiana doveva parere a Giuliano una pratica superstiziosa. Si legga l’ep. 59, inviata agli alessandrini molto poco dopo la morte di Costanzo: l’imperatore informa i cittadini che sposterà a Costantinopoli un loro obelisco, che essi tengono gettato sulla spiaggia. Scrive allora, a proposito dell’incubatio notturna che alcuni – pagani – praticano nei pressi dell’obelisco: Καὶ τὸ λεγόμενον δὲ ὥς τινές εἰσιν οἱ θεραπεύοντες καὶ προσκαθεύδοντες αὐτοῦ τῇ κορυφῇ, πάνυ με πείθει χρῆναι τῆς δεισιδαιμονίας ἕνεκα ταύτης ἀπάγειν αὐτόν· οἱ γὰρ θεώμενοι τοὺς καθεύδοντας ἐκεῖ, πολλοῦ μὲν ῥύπου, πολλῆς δὲ ἀσελγείας περὶ τὸν τόπον ὡς ἔτυχεν οὔσης, οὔτε πιστεύουσιν αὐτὸν θεῖον εἶναι καὶ διὰ τὴν τῶν προσεχόντων αὐτῷ δεισιδαιμονίαν ἀπιστότεροι περὶ τοὺς θεοὺς καθίστανται. E mi si dice che ci sono alcuni devoti che dormono presso la punta dell’obelisco: proprio questa superstizione mi convince appieno della necessità di rimuoverlo. Coloro che li vedono giacere là, tra la molta sporcizia, in un luogo spesso molto impudico, non potranno credere che l’obelisco sia cosa divina; e la loro fede verso gli dei diminuirà per colpa della superstizione dei fedeli che lo attorniano. Il sudiciume e la sporcizia qui denunciati assomigliano alla macilenza cristiana. Δεισιδαιμονία è nelle lettere, per antonomasia, la superstizione cristiana78 ; in questa pratica egiziana Giuliano riconosce una forma di degrado paragonabile a quella cristiana, forse di quella progenitrice79. Questo meccanismo di discendenza culturale è ben collaudato: nel Contra Galilaeos (frg. 86), ad es., l’imperatore osserva Cfr. J.-M. Demarolle, Le Contre les Galiléens: continuité et rupture dans la démarche polémique de l’Empereur Julien, «Ktèma» 11 (1986) 39–47 spec. 42–44; anche J. J. O’Meara, Porphyry’s Philosophy from oracles in Eusebius’s Praeparatio Evangelica and Augustine’s Dialogues of Cassiciacum (Paris 1969) 5–17. 77 La studiosa B. Cabouret, op. cit. (n. 47) 101–103 ha osservato che alcune citazioni della fonte Castalia in opere polemiche cristiane potrebbero non riferirsi alla celebre fonte di Delfi, ma alla sua omonima antiochena. Se ciò è innegabile, ad es., nell’orazione del Nazianzeno contro Giuliano (Or. V,32), è assai più significativo che anche Clem. Prot. II,11,1 si presti ad una simile lettura. Giuliano avrebbe potuto leggere questo passo? Si riconosce generalmente nelle epp. 106 e 107 (a Porfirio, Direttore Generale delle Finanze, e a Ecdicio, prefetto d’Egitto) una chiara testimonianza della ricerca di fonti cristiane per la stesura del Contra Galilaeos; è forse lecito pensare che la biblioteca alessandrina del defunto Giorgio di Alessandria contenesse il Protrettico di Clemente Alessandrino. Leggendo, Giuliano avrebbe cercato di confutare de facto il silenzio che era rivendicato per iscritto, secondo un procedimento di smentita non letteraria, ma prammatica. Simile confutazione è presupposta ad es. nella ricostruzione del tempio di Gerusalemme, contro Mt 24,2; Mc 13,2; Lc 21,6: se si vuole prestare ascolto alle fonti cristiane (Thdt. H. e. III,20,1; Philost. H. e. VII,9). E d’altronde non è forse necessario che la Castalia degli scrittori sia la medesima cui pensava il lettore imperiale: all’incosciente equivoco, o alla sciente analogia, sarà bastata l’uguaglianza del nome. 78 Cfr. ad es. ep. 54 (380d), oppure ep. 111 (435a). 79 Per qualche altra forma di superstizione pagana paragonabile Chuvin, op. cit. (n. 74) ricorda un epitaffio tombale a Thyatira, in L. Robert, Études Anatoliennes (Amsterdam 1970) 129–133: «εἴ τις δὲ θέλει τὸ α[λη]θὲς μαθεῖν παρὰ ἐμοῦ ἰς τὸν βωμὸν ἐνευξάσθω». 76 Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 83 84 Tommaso Salvatori che gli ebrei, vivendo da stranieri in Egitto, s’impregnarono di alcune usanze egiziane, tra cui la circoncisione80. Si può osservare che anche l’odiatissimo Atanasio pareva in grado di prevedere il futuro, secondo la voce raccolta da Ammiano (XV,7,8)81 : dicebatur enim [scil. Atanasio] fatidicarum sortium fidem quaeve augurales portenderet alites scientissime callens aliquotiens praedixisse futura («si diceva infatti che, espertissimo nell’interpretazione degli oracoli e dei presagi degli uccelli, avesse predetto alcune volte il futuro»)82 ; simili voci riporta anche Sozomeno (H. e. IV,9), menzionando il sospetto che questa cognizione del futuro non mancava di suscitare in ariani e pagani. Chi accosti questo luogo delle Storie di Ammiano al frg. 88 del Contra Galilaeos83 non potrà non notare la somiglianza tra Mosè e Atanasio; e se la diceria raggiunse Giuliano, com’è verisimile dopo l’ambasceria pagana di Alessandria che diede presumibilmente origine ai contrasti tra il vescovo e l’imperatore84, egli ne avrà tratto una conferma della sua interpretazione storica del cristianesimo, e del ruolo dell’Egitto in essa.85 Si tratta in fondo dell’antica idea, risalente a Posidonio (Strab. XVI,2,35–37 = FGrHist 87 F 70), secondo cui la religione ebraica, fondata dal sacerdote egiziano Mosè e filosoficamente eccellente, venne progressivamente corrotta per l’introduzione di pratiche superstiziose: è la δεισιδαιμονία a corrompere il culto. Non è privo di rilevanza che nello stesso frammento Posidonio (in Strabone) menzioni l’incubazione sacra nel tempio come specialità ebraica: l’arte di fare buoni sogni è espressamente coltivata per volere di Mosè86. Non è difficile osservare che l’informazione sull’oniromanzia ebraica e l’idea della decadenza superstiziosa delle pratiche del culto ebraico viaggiano asCelebre e antico tema antico di dibattito tra pagani e cristiani: si veda almeno Orig. Cels. I,22; cfr. Rinaldi, op. cit. (n. 2) 416; a parti inverse basterà citare Aristobulo, il filosofo giudeo vissuto sotto il Filometore. L’eco lunga di questa posizione pagana, certamente a causa del Contra Galilaeos, permarrà in ambiente antiocheno: si cfr. ad es. Thdt. Therap.VII,16 ss. 81 Si tratta, secondo Ammiano, dell’accusa rivolta ad Atanasio al concilio di Milano (355). 82 Trad. A. Salem. Si potrà aggiungere forse il fortunatissimo aneddoto di Ruf. H. e. I,25. 83 Parte d’un gruppo di frammenti in cui Giuliano si propone di mostrare che gli ebrei dell’Antico Testamento avevano fatto uso di sacrifici e consimili pratiche pagane: frgg. 69, 70, 71, 72, 83, 84, 87, 88, 89. 84 Per la datazione di questa ambasceria, giunta all’imperatore nei primissimi mesi del 362, si dipende dall’accenno di Giuliano (Mis. 40), ove l’imperatore riprende gli antiocheni per il ritardo con cui l’ambasceria della loro città giunse presso di lui a felicitarsi della sua ascesa alla dignità imperiale. Cfr. P. Petit, Libanius et la vie municipale à Antioche au IVe siècle après J.-C. (Paris 1955) 263, 416– 417; l’odio di Giuliano per Atanasio precede senz’altro la primavera, perché egli apprenderà del battesimo pasquale di donne pagane in un secondo momento (Jul. ep. 112), e cfr. complessivamente O. Seel, Die Verbannung des Athanasius durch Julian, «Klio» 32 (1939) 175–188; Bidez Oeuvres, I/2 121– 123. 85 Per i rapporti di Giuliano con l’Egitto, si veda ad es. A. Theodorides, L’Orient et spécialement l’Egypte dans le pensée de Julien l’Apostat, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, III, Da Costantino a Teodosio, con particolare riguardo alla politica legislativa di Giuliano (Perugia 1979) 383–409; per il legame «familiare», rivendicato nel congedo dell’ep. 60 agli abitanti di Alessandria, cfr. J. Vanderspoel, Correspondence and correspondents of Julius Julianus, «Byzantion» 69 (1999) 396– 478. 86 Cfr. ad es. M. Hengel, Giudaismo ed Ellenismo (Brescia 2001) 523–527; inoltre 531 n. 3. 80 Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 Giuliano Imperatore e Diodoro (ep. 90 Bidez) sieme da Posidonio a Strabone. Giuliano vide precipitare concretamente, in una situazione storica, questo luogo letterario-polemico. Torniamo all’ep. 90. Diodoro, Nazaraei magus, è accusato di essere corruptorem legum et rationum et mysteriorum paganorum et deorum infernorum («corruttore delle leggi, delle dottrine, dei misteri degli Elleni, degli dei inferi»); egli, ignorans paganorum mysteria, contamina ogni cosa con l’errore cristiano. Si legga, nell’epistola accompagnatrice del decreto su tombe e funerali, ciò che Giuliano scrive a proposito dei domini degli dei che si occupano dei vivi e degli dei che si occupano dei morti: τὸ μὲν οὖν ὑπὲρ τούτων λέγειν εἴτε τοῖς αὐτοῖς ἀμφότερα προσήκει θεοῖς, εἴτε ἕτεροι μὲν ἐπιτροπεύουσι τοὺς ζῶντας, ἕτεροι δὲ τοὺς τεθνεῶτας, οὐδ’ ἄξιον ἴσως δημοσιεύειν («quanto a ciò, se si debba dire che l’uno e l’altro dominio appartengano ai medesimi dei, o se invece alcuni si occupino dei vivi, altri dei morti – son cose che forse non è bene divulgare»). Diodoro sembra incarnare, anche biograficamente, col suo soggiorno ateniese, la decadenza delle religioni classiche a cristianesimo, e la corruzione dei costumi greci; la sua corruptio … mysteriorum paganorum et deorum infernorum («corruzione dei misteri ellenici e degli dei inferi») – quei misteri appunto che non è bene divulgare (nelle parole dell’ep. 136b) – è forse la rappresentazione giulianea dalla frequentazione delle tombe dei martiri che Diodoro e Flaviano organizzarono, che Teodoreto racconta, che all’imperatore dovette sembrare una forma di magia e divinazione pagana impregnata di superstizione, un’incubatio perversa, un’offesa agli dei inferi, capace di tacitare il dio sulla cui potenza organizzatrice egli aveva fondato il proprio governo e la legittimità di esso. Se, come ci pare non improbabile, il culto di Babila fu cura di Diodoro e Flaviano; se l’ambiente dei «salmisti» da cui Giuliano è perseguitato in Teodoreto è analogamente da ricondursi al clima culturale dell’ἀσκητήριον; se è vero che Giuliano vide nella frequentazione delle tombe una forma corrotta di divinazione e un affronto agli dei inferi – l’ep. 90 può ricondursi al clima dell’autunno 362 e testimoniare lo stato di tensione che accompagnò lo scontro per il sobborgo di Dafne. 6 Conclusioni Il confronto giulianeo tra Diodoro e Fotino tiene conto di questa situazione storica. Ciò che propriamente distingue l’un cristiano dall’altro, nella valutazione di Giuliano, è la convenienza politica: l’ordine pubblico ad Antiochia e in Pannonia interessa all’imperatore almeno tanto quanto la battaglia filosofica e teologica. Dunque: – l’ep. 90 può ben essere parte di un carteggio di polemica religiosa con Fotino; Facondo usa tagliare e smontare la documentazione che fornisce con libera spregiudicatezza; Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021 85 86 Tommaso Salvatori – il lettore moderno non può essere sicuro che Giuliano abbia discusso con Diodoro di persona: non esistono testimonianze storiche, se non l’ep. 90, che potrebbe essere costruita con informazioni ottenute dagli amici e collaboratori antiocheni; – d’altronde ciò importa poco: Giuliano sa chi è Diodoro e ne conosce la dottrina. E forse Giuliano potrebbe aver concepito odio contro Diodoro, a differenza di quanto si crede generalmente, anche per ragioni storico-politiche, oltre che per ragioni filosofiche e teologiche; – lo scontro per il sobborgo di Dafne sigilla l’avversione a Diodoro (inclinando Giuliano verso Fotino, l’avversario di Diodoro polemista): è l’ago storico di una bilancia teologica. Corrispondenza: Tommaso Salvatori Scuola Galileiana di Studi Superiori Via S. Massimo, n. 33 I-35129 Padova salvatoritommaso13@gmail.com Museum Helveticum 78/1 (2021) 61–86 | DOI 10.24894/2673-2963.00021